È comune nel mondo la percezione che i popoli più a sud siano in qualche modo più “focosi” di quelli del freddo Nord. L’idea, seppure rovesciata, trova credito anche sotto l’Equatore, dove invece chi sta più a nord è più al caldo e – così si pensa – più “emotivamente acceso”. È difficile trattare generalizzazioni di questo tipo – come la mettiamo con il supposto torpore dei Tropici? – ma l’impatto del concetto è indubbio e incide sulle relazioni tra popoli e le interazioni geopolitiche. La questione è stata recentemente esaminata dagli studiosi Wenqi Wei, dell’Università di Pechino, e Jackson Lu, della Texas A&M University americana. I due hanno analizzato grandi volumi di dati sulle temperature medie ambientali e le caratteristiche emotive delle popolazioni di due paesi culturalmente distinti: gli Stati Uniti e la Cina. Trovano, in sintesi, che in entrambi i paesi: “Gli individui cresciuti nelle zone dalle temperature medie più clementi (quelle attorno ai 22 °C) mostrano punteggi più alti per i fattori di personalità relativi alla socializzazione, la stabilità, la maturità e l’apertura alle novità”. La variabilità delle “personalità nazionali” tra popoli è stata spesso oggetto di studio, attirando spiegazioni che variano tra gli “stili di sussistenza” (nomadismo oppure agricoltura stanziale, ecc.), l’immigrazione selettiva e la variabile prevalenza di certi patogeni, per esempio le tipiche malattie
tropicali. L’ipotesi di Wei e Lu però ha un altro tipo d’impatto perché loro la mettono in collegamento con la minaccia posta dal riscaldamento globale, scrivendo: “Come il cambiamento climatico prosegue attorno al mondo, potremmo anche osservare concomitanti cambiamenti nella personalità umana”. I due sparano parecchio alto. Associano due tipologie di dati molto distanti tra loro, ma manca per ora il nesso causale. Si potrebbe anche dimostrare un’associazione tra temperature ambientali alte e il consumo di gelato – e quindi tra gelato ed emotività – ma non per questo sarebbe ragionevole pensare che coni e “stecchi” determinino le personalità collettive dei popoli. Tuttavia, un’altra ricerca – con un campione molto più omogeneo – sembra indicare una forte relazione tra le temperature subite dai bambini in grembo e nella prima infanzia e il loro eventuale reddito. Maya Rossin-Slater, della Stanford University, e la sua equipe hanno analizzato dati Usa relativi al numero di giorni caldi vissuti tra la gestazione e il primo anno di vita dai nati in un dato giorno, paragonando questi con altre nascite nella stessa data e località ma in un anno diverso, andando poi ad esaminare i loro guadagni da adulto. Risulta che un singolo giorno di esposizione durante la prima fase di sviluppo a una temperatura media giornaliera superiore ai 32 gradi “costerebbe” statisticamente al nascituro circa $430 di reddito nel corso della vita. Non è molto, ma se per ora l’americano medio è esposto nell’arco dell’anno a un’unica giornata a quelle temperature, i climatologi più allarmati dal riscaldamento terrestre prevedono per la fine di questo secolo 43 giornate di gran caldo annualmente negli Usa. Il pericolo -se è tale – è comunque lontano e le ricerche sicuramente preliminari. Ciò che emerge soprattutto è che la nuova abbondanza di dati astratti, e di computer disponibili per digerirli, pare certamente destinata a incrementare di molto le cose di cui possiamo – volendo – preoccuparci.
James Hansen, Nota Diplomatica