Eni sarà giudicata in Italia, sulla questione del risarcimento per il disastro ambientale in Nigeria

La decisione del Tribunale di Milano è arrivata oggi durante la prima udienza del procedimento intentato contro Eni e la sua controllata Naoc dagli Ikebiri, che chiedono due milioni di euro e la bonifica dell’area devastata dall’incidente avvenuto il 5 aprile 2010. Il giudice ha respinto la richiesta dell’azienda italiana di fermare il processo per mancanza di giurisdizione

Eni sarà giudicata in Italia in merito al risarcimento per il disastro causato sette anni fa alla comunità nigeriana di Ikebiri dopo lo scoppio di una conduttura della controllata Nigerian Agip Oil Company e la fuoriuscita di petrolio che danneggiò fauna e vegetazione dell’area. Il giudice ha respinto la richiesta della multinazionale italiana di fermare il processo per mancanza di giurisdizione, disponendo invece di procedere nel merito. La decisione del Tribunale di Milano è arrivata oggi durante la prima udienza del procedimento intentato contro Eni e la sua controllata dagli Ikebiri, che chiedono due milioni di euro e la bonifica dell’area devastata dall’incidente avvenuto il 5 aprile 2010, quando una conduttura petrolifera esplose a circa 250 metri da un torrente, nella zona settentrionale dei territori della comunità, nello Stato di Bayelsa. L’incidente tolse le fonti di sostentamento agli Ikebiri, rappresentati dal re Francis Ododo e supportati nel processo dalla ong Fiends of The Earth. Se la comunità otterrà ciò che chiede, questo sarà il primo caso in cui una multinazionale italiana viene condannata dalla giustizia civile per un episodio di disastro ambientale avvenuto al di fuori dei confini nazionali.

La comunità Ikebiri contro Eni “Eni ha sempre ammesso la propria responsabilità sulle cause dello sversamento” si legge nella citazione a giudizio. Secondo le popolazioni locali prima è stata contaminata “un’area contenuta, che poi si è allargata in quanto la bonifica non è stata fatta o – quanto meno – non ha rimosso efficacemente gli elementi inquinanti, come è dimostrato dal risultato delle analisi chimiche fatte eseguire dalla comunità”. L’azienda ha dichiarato di aver bonificato, ma non ha mai presentato i relativi documenti, mentre sono falliti tutti i tentativi di mediazione con il rifiuto dell’offerta di un risarcimento di 4,5 milioni di naira (equivalenti a 13mila euro attuali e 22mila del 2010). Un’offerta troppo bassa per gli Ikebiri, tenuto conto che i 150 barili di petrolio defluiti nel corso d’acqua hanno danneggiato irreparabilmente sia la fauna ittica che gli alberi da frutto, vitali per il sostentamento della piccola comunità di pescatori e raccoglitori. “Sono sette anni che attendiamo di ottenere giustizia – ha dichiarato il re Francis Ododo – e ora finalmente avremo l’opportunità di confrontarci con Eni di fronte a un giudice italiano. Speriamo che presto il nostro territorio possa essere bonificato”.

Un precedente importante“In caso di vittoria – spiega a ilfattoquotidiano.it l’avvocato Godwin Ojo responsabile di Environmental Right Action/Friends of the Earth Nigeria, associazione che da sempre è al fianco delle comunità locali vittime di disastri ambientali – l’affare Ikebiri rappresenterà un importante precedente giuridico per tutte le comunità nigeriane che ogni giorno subiscono gli effetti inquinanti delle attività di Eni, Shell e delle altre grandi compagnie petrolifere che agiscono nel nostro territorio. Le richieste di risarcimento – aggiunge – si moltiplicheranno e le multinazionali dovranno per forza cambiare atteggiamento nei confronti del nostro popolo e della nostra terra”.

I dati contro gli sloganLa magistratura stabilirà a quanto ammonta il risarcimento, ma al di là del processo c’è un dato. “Negli ultimi 50 anni ci sono stati oltre 10mila sversamenti di petrolio nell’area del delta del Niger e in nessuno di questi casi, in nessuno, si è provveduto a una adeguata opera di bonifica ambientale” denuncia l’avvocato Godwin Ojo. In questo scenario e in ciò che avviene in quell’area del mondo, anche l’Italia ha un ruolo. E la Nigeria è il Paese da cui proviene la maggior parte dei migranti sbarcati in Italia nel 2017, ossia quasi 18mila. In questa storia, quindi, non trova alcun riscontro con la realtà quel “aiutiamoli a casa loro” sbandierato a destra e a manca sia dalla Lega di Salvini che dal Pd di Matteo Renzi. Non solo l’Italia destina i fondi stanziati per la cooperazione più all’accoglienza ai rifugiati in patria che per progetti mirati a migliorare le condizioni nei Paesi di provenienza, ma non si sottrae neppure al quotidiano sfruttamento delle risorse del continente africano, insieme al resto d’Europa, a Stati Uniti e Cina. Si va dai diamanti al petrolio, fino al land grabbing (accaparramento della terra) e all’avvelenamento del suolo e delle acque causato dalla tossicità delle industrie agricola, mineraria e manifatturiera.

Lo sfruttamentoIl disastro del 2010 non è un caso isolato. “Le compagnie multinazionali che operano in Nigeria – continua Ojo – sono spesso coperte da uno status di totale impunità. Agiscono al di sopra delle nostre leggi nazionali: sono praticamente intoccabili”. Questo è permesso da leggi nazionali molto deboli, soprattutto in questo specifico settore “e non vi è la volontà politica di rafforzarle”. Secondo un rapporto del 2011 del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente, in diverse aree inquinate da Shell – e che la multinazionale aveva sostenuto di aver bonificato – sono state trovate importanti tracce di idrocarburi fino a una profondità di 5 metri. “Il caso-Ikebiri è sintomatico di una situazione generale in cui le singole comunità locali vengono sistematicamente ignorate dalle giustizia” sottolinea l’avvocato. Che aggiunge: “L’alto costo della causa e il rischio di interferenze da parte di Eni nei confronti dello Stato nigeriano ci hanno indotto a rivolgerci direttamente alla giustizia italiana, nella quale confidiamo sinceramente”. Il ruolo dell’Italia? “Come la maggior parte delle nazioni europee – dice Ojo – l’Italia è responsabile per i danni causati in terra africana dalle multinazionali del petrolio, dal momento che tali compagnie sono supportate dai rispettivi governi nazionali. Shell, Chevron, Total, Eni e le loro controllate sono colpevoli di disastro ambientale e violazione dei diritti umani. Questa è la situazione: l’ambiente viene distrutto e non esiste possibilità di chiedere giustizia”.

I rifugiati ambientali In un simile scenario, non esistono che due possibilità: adeguarsi a una lenta agonia, oppure migrare verso i paesi più ricchi. “Perciò, oggi più che mai – sottolinea l’avvocato – è necessario eradicare le vere cause delle migrazioni, offrendo alternative valide alle vittime dei disastri ambientali”. L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati e l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni ha dichiarato che entro il 2050 si raggiungeranno i 200-250 milioni di rifugiati ambientali, con una media di 6 milioni di persone costrette ogni anno a lasciare il proprio Paese. Tra le cause di questo fenomeno non solo le guerre. E, in Africa, contribuisce ad alimentarlo anche la distruzione di una parte importante dell’agricoltura sub sahariana, diretta conseguenza degli accordi di Partenariato economico (Epa) che l’Ue, in accordo con l’Organizzazione mondiale del commercio, ha imposto all’Africa chiedendo di eliminare tutti i dazi all’entrata di merci, prodotti agricoli e servizi europei. Gli effetti economici sui Paesi africani? In Burundi è stata calcolata in un anno la perdita complessiva di 20 milioni di dollari, in Niger di 24 milioni. Poi c’è la questione degli ettari di terra acquistati (spesso per la richiesta di bio-combustibili dall’Europa) e sottratti all’agricoltura, su cui non verrà più prodotto cibo. L’Italia partecipa all’operazione con quasi un milione di ettari, principalmente in Africa. Ne conseguono abbandono e migrazioni. “Le migrazioni ambientali sono più che mai attuali in Nigeria – spiega il responsabile di Environmental Right Action/Friends of the Earth Nigeria – e aumenteranno ancora, e in modo impressionante, nei prossimi anni, a meno che la giustizia e le istituzioni internazionali non intervengano in modo efficace, dopo decenni di silenzio e impunità nei confronti delle grandi compagnie multinazionali. O le popolazioni locali potranno ottenere giustizia, oppure esse saranno costrette ad abbandonare in massa le loro terre, imbarcandosi verso un destino ignoto e spostandosi verso i paesi più ricchi”.

Luisiana Gaita, Ilfattoquotidiano.it

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