La tecnologia “blockchain”, che anima l’ecosistema del Bitcoin e delle altre criptovalute, rappresenta l’alternativa decentralizzata all’apparato istituzionale creato per garantire la massima “fiducia” nella possibilità di attestare l’identità personale e di conservare nel tempo la proprietà di un bene o trasferirla ad un altro soggetto. Questo è il lato rivoluzionario del Bitcoin, non l’andamento esplosivo del suo rapporto di cambio con il dollaro o l’euro. Così come è rivoluzionario che tale tecnologia stia consentendo di sperimentare e di prefigurare un mondo dove le transazioni economiche tra persone, anche se residenti in Stati diversi, possano avvenire direttamente, senza intermediari finanziari, e attraverso una moneta la cui offerta è dettata da algoritmi matematici, trasparenti e liberi dal controllo di istituzioni nazionali o sovranazionali. Per apprezzare la portata del fenomeno, bisogna ricordare che la moneta è un oggetto sociale, cioè l’espressione di una collettività organizzata con proprie leggi ed istituzioni, la cui adozione, essendo fino ad ora sempre stata esclusiva, condiziona il comportamento di tutti gli operatori economici.
Quello che distingue una moneta da un qualsiasi altro strumento di scambio e conservazione del valore è il non poter essere rifiutata come mezzo di pagamento all’interno di un determinato territorio, in genere coincidente con i confini dello Stato- nazione.
Se un cittadino europeo vuole pagare le tasse con l’euro può farlo. Se vuole pagarle in Bitcoin o in dollari, no. Il fatto che il Bitcoin sia un oggetto puramente digitale o che non sia convertibile in alcunchè di materialmente tangibile lo distingue dall’oro o dalle “vecchie” monete, ma non certo dall’euro o dal dollaro. Il nostro conto corrente o i nostri Btp non sono altro che bit, registrazioni contabili su libri mastri elettronici, proprio come le criptovalute. Il concetto legale e quindi sociale della moneta è stato espresso dal presidente della Bce, Mario Draghi, nel corso della sua ultima conferenza stampa. Alla domanda di un giornalista su cosa ne pensasse della decisione dell’Estonia di varare una valuta digitale sul modello del Bitcoin, egli ha risposto seccamente: «Nessun paese può introdurrre una propria moneta: la moneta dell’eurozona è l’euro».
Forse il presidente Draghi voleva in realtà rispondere indirettamente a chi, anche in Italia, pensa di reintrodurre le vecchie monete nazionali, a fianco dell’euro. Sta di fatto che viene da chiedersi se non sia più lungimirante da parte dei banchieri centrali iniziare ad immaginare un futuro di coabitazione tra le monete che rappresentano le istituzioni di uno spazio fisico delimitato e le monete che non rappresentano alcuna istituzione e i cui confini sono solo quelli imposti dalla diffusione di Internet. Ed iniziare ad immaginarlo subito. Viste le dimensioni contenute, la rivoluzione del “blockchain” può essere ancora indirizzata lungo linee evolutive che risparmino all’economia mondiale le conseguenze di un sistema monetario caotico. Oggi, il totale delle 1.154 criptovalute censite capitalizza 141 miliardi di dollari. È vero che in due mesi di quantitative easing la Bce immette nel sistema bancario europeo un quantitativo analogo di euro. Però, non bisogna trascurare il fatto che a maggio la capitalizzazione era pari a 60 miliardi di dollari, un anno fa 10 miliardi e nel 2013 poco più di un miliardo.
Da quando nel 2009 Satoshi Nakamoto, il misterioso padre delle criptovalute, ha coniato il blocco genesis di 50 bitcoin, è stato emesso nei primi otto anni di vita il 76% della quantità massima teorica, pari a 21 milioni di pezzi. Trattandosi di algoritmi matematici, una bella sfida per gli economisti potrebbe essere quella di immaginare la funzione ideale di creazione di moneta. Milton Friedman non avrebbe avuto dubbi in proposito: un saggio costante proporzionale al tasso di crescita dell’economia mondiale. I banchieri centrali preferirebbero forse una crescita parametrizzata all’andamento ossservabile di variabili macroeconomiche come la disoccupazione o l’inflazione. In ogni caso, l’idea dell’Estonia di sperimentare l’Estcoin, più che essere liquidata con una battuta, andrebbe studiata attentamente a Francoforte. D’altro canto, allargando lo sguardo oltre lo spazio delle economie e dei mercati finanziari immersi in un contesto democratico e di sostanziale libertà di movimento dei capitali, la percezione sul valore e la diffusione delle criptovalute cambia parecchio. Chi se la sentirebbe di consigliare ad un risparmiatore venezuelano di lasciar perdere il Bitcoin e investire in Bolivar?
Marcello Esposito, Repubblica.it