(di Cesare Lanza per LaVerità) Scommettiamo che i tatuaggi indicano un desiderio di appartenenza sempre più diffuso? Certo, per affermarlo ci vorrebbe un sondaggio accurato. Che non è nelle mie facoltà e tanto meno nei miei desideri. Quindi vi propongo, in assoluta umiltà, la mia riflessione. A costo di apparire impopolare, vi dico subito che li detesto, i tatuaggi! Ma, dopo averne visti migliaia, non ho potuto sottrarmi a una domanda inevitabile: perché? Ed ecco la mia (sempre umile) risposta: ci si tatua per adeguarsi a una moda, per me irrazionale, dilagante; oppure per avere e mostrare, sul proprio corpo, un segno – indelebile – di appartenenza. Per ammirazione, amore, rispetto, un ricordo, una gioia, un lutto o per tanti altri sentimenti e impulsi emotivi. La mamma, il papa, il marito, la moglie, fidanzati, amanti ufficiali o segreti. La squadra di calcio, il campione, gli idoli dello sport, dello spettacolo, dell’arte… E così via. Testimonianze visibili, sfacciate, o discrete, timide. E qui cominciano le distinzioni. Certo un unico tatuaggio propone una scelta importante; il corpo cosparso di tatuaggi mi sembra un segno di superficialità o di variabilità di umore. Una cara ragazza mi ha dedicato un paio di devoti tatuaggi, ma come posso esserne inorgoglito, se su braccia, gambe e ventre ne vedo, in continuo aumento, altre decine? Poi ci sono aspetti grotteschi: l’arzilla vecchietta che espone sulla natica un cuore, il decrepito signore che si è stampato un teschio sulla fronte forse per annunciare (o esorcizzare?) la fine imminente. Appartenenza indistruttibile alla voglia di amore, al desiderio di capire il senso della vita e della morte? Resta irrisolta la domanda di fondo: perché?