Il popolare critico d’arte e l’ex ministro dell’Economia dei governi Berlusconi scrivono, a sorpresa, un saggio insieme. Sognando un nuovo movimento che pone le basi in una frase “mai” detta: «Il rilancio dell’Italia è nella sua storia»
«Io sono l’avventura, Giulio la prudenza», dice l’uno. «Io sono il diavolo, Vittorio l’acquasanta», dice l’altro. Adesso che Vittorio Sgarbi e Giulio Tremonti si sono messi in tandem alla guida della stessa impresa (saggistica, per ora), meglio insomma non chiedersi chi, tra i due, si senta addosso i panni di Vittorio Gassman e chi quelli di Jean-Louis Trintignant. Ma in un agosto molto lontano dagli anni raccontati dal capolavoro di Dino Risi, l’accoppiata è davvero inedita e sorprendente, degna di un Sorpasso sia pur in versione di prosa politica.
Irregolari, autonomi, dissenzienti, ciascuno a modo suo nel vasto mondo (grosso modo) del centrodestra: Sgarbi e Tremonti hanno unito attitudini e atipicità per costruire “Rinascimento”, in uscita il 30 agosto per la nuova Baldini&Castoldi, che L’Espresso ha letto in anteprima. Un saggio, intanto, “manifesto per uscire dal nuovo Medioevo”, il nostro mondo in decadenza e consegnato “allo straniero”. L’assaggio – il benchmark direbbe forse Tremonti – per una possibile avventura politica, che secondo una perfetta disposizione dei due caratteri l’uno dà per certa «al 95 per cento», l’altro solo per «possibile» quando non eventuale. Intanto, un punto fermo: la cultura al centro. Gli Uffizi come la Volkswagen. Perché “con la cultura (non) si mangia”, come da controversiale sottotitolo di “un libro che vuole ispirare, in movimento, una politica nuova”, scrivono Sgarbi e Tremonti nell’introduzione.
Che è poi l’unico elemento a doppia firma: nel resto del libro i compiti sono perfettamente distribuiti, almeno in teoria. Al critico d’arte la visione del Rinascimento, il racconto di cosa è stato, ma anche l’intuizione per l’oggi che la cultura possa “sostituire le ideologie”, i valori identitari dei “vecchi partiti” e che il rilancio italiano avvenga sulla base del suo essere “la prima potenza culturale del mondo”. A Tremonti il resto: l’articolazione politica, il ruolo dell’Italia in una Europa descritta «come un cimitero di ricordi, rianimati dalle direttive», il racconto della “gabbia” neo-medievale di un mondo gonfio di regole, dove «si sta operando una sintesi paternalistica tra comunismo e consumismo», aggiunge l’ex ministro, tirando una linea di congiunzione paradossale tra il ministro Carlo Calenda e Leonardo da Vinci: «Nell’ultimo decreto legge sulla concorrenza c’è una norma. Dice che prima di accettare ogni lavoro, un artigiano, autonomo, deve fare un preventivo, scritto e dettagliato. Chi se lo immagina un Leonardo da Vinci costretto da uno Sforza a fare un preventivo scritto e dettagliato?».
Una marcia parallela, condotta con modalità diverse. Tra l’assenza storica di un Pompidou italiano e una critica a Mario Monti. Non a caso, il critico d’arte si orienta navigando tra Masaccio e Brunelleschi, l’ex ministro misurando le leggi in metri lineari, a chiarire la «normale operosa follia» che ne ha prodotti 12 chilometri nel 2016 (postilla per chi voglia imitarlo: l’unità di misura è una pagina cartacea della Gazzetta ufficiale). «Vero, è un sodalizio basato su una differenza totale», si bea Sgarbi, che rivendica di aver voluto Tremonti «nonostante la contrarietà di tutti i miei followers» e parla di «un dialogo alto, lontano dal solito insopportabile cortile», cominciato a margine di una iniziativa della Meloni, e proseguito grazie alla comune conoscenza del cossighiano Paolo Naccarato.
Bisogna dire che i due si conoscono da tempo immemore. Hanno persino fatto parte dello stesso governo: Tremonti come al solito con potere di cassa, Sgarbi brevemente sottosegretario ai Beni culturali, che ululava contro il suo ministro (Giuliano Urbani) e andava dicendo che il governo voleva vendere il Colosseo (era il 2002). Quella differenza si è consumata di nuovo, adesso, con il sottotitolo-mobile che per Sgarbi è «l’autentico titolo del libro» e per Tremonti «solo una fascetta». “Con la cultura (non) si mangia” è una frase epocale per descrivere gli anni del berlusconismo rampante, quello dei tagli che facevano piangere Sandro Bondi, allora ministro della Cultura, ma non solo lui. Un po’ come l’attribuzione del “dategli le brioches” a Maria Antonietta, «la cultura non fa mangiare la gente» fu affermazione affibbiata a Giulio Tremonti, allora super ministro dell’Economia, come segno del «berlusconismo da libreria al metraggio» (per dirla con Paolo Guzzanti). E infatti il senatore da allora non è più riuscito a scrollarsela di dosso, pur avendola smentita decine di volte.
«Ma che Tremonti l’abbia detta o no non ha nessuna importanza, perché se si chiede a cento persone, tutti pensano che quella frase lui l’abbia detta davvero», spiega Sgarbi: «E adesso, perfetto convertito, scrive un libro per dimostrare l’opposto di quel supposto assunto che lui non ha pronunciato, e che però tutti gli attribuiscono. La conversione perfetta». Alla fine, anche Tremonti si arrende: «Va bene. Con Sgarbi mi presto a fare come il Mike Bongiorno descritto da Umberto Eco che intenzionalmente, con i concorrenti, fingeva di sbagliare. Ma in realtà non c’è mai stato da parte mia odio per la cultura o una sottovalutazione del suo valore economico». Le scelte, dice, furono pura necessità: «Altrimenti qualcuno dei geni che mi è succeduto in questi otto anni avrebbe corretto quella scelta oscurantista, quell’errore. E invece». Insomma, che gli Uffizi di Firenze valgano più della Volkswagen, o della “palude digitale sulla rete”, Tremonti l’ha sempre pensato. E adesso, in tandem con Sgarbi, potrebbe addirittura farne il perno di un futuro anche politico. Chissà cosa ne pensa il povero Bondi.
Susanna Turco, L’Espresso