Gupta lascia dopo la perdita da 708 milioni nel quarto trimestre, inferiore al miliardo sfiorato tre mesi prima. Soltanto poco tempo fa era stato il presidente a fare un passo indietro, mentre si è rotto male il rapporto con il top manager per lo sviluppo delle auto senza pilota, accusato di aver rubato i segreti di Google
Continua a crescere il giro d’affari di Uber, che però ancora non riesce a ribaltare sulle ultime righe del conto economico la sua galoppata: in poche parole, a fronte di una crescita dei volumi ancora di utili nelle tasche non ne restano. E forse anche per questa ragione salta una testa “finanziaria” importante nella startup americana: il responsabile finanziario, Goutam Gupta, ha lasciato la compagnia – formalmente per una nuova avventura manageriale nella Silicon Valley – dopo l’annuncio di una perdita netta di 708 milioni di dollari nel quarto trimestre dell’anno, inferiore a quella di 991 milioni di dollari registrata tre mesi prima. In compenso il fatturato della società di trasporto urbano via app, avanza del 18% a 3,4 miliardi di dollari.
Questa schizofrenia è una costante dei conti di Uber, la quale nel 2016 Uber ha perso 2,8 miliardi di dollari, a fronte di un rialzo dei ricavi, che si attestano a 6,5 miliardi di dollari, più di quanto facciano compagnie più grandi come Twitter, Snapchat, o Airbnb. In passato Uber si è spesso sottratta alla pubblicazione dei suoi conti, alla cui divulgazione non è obbligata, non essendo quotata in Borsa. La società può contare su un ‘tesoretto’ di 7,2 miliardi di dollari, che è quanto le resta di liquidità dei 15 miliardi di dollari raccolti tra gli investitori. A Gupta (che di fatto non ha mai ricevuto il titolo di cfo) va il merito di aver presentato la società proprio a fondi e affini che vi hanno pompato tanti soldi, anche se nell’ambiente – racconta Bloomberg – c’è sempre stato un po’ di scetticismo sulla sua esperienza e sulla sua adeguatezza ad affrontare la prova più grande per un direttore finanziario: lo sbarco in Borsa.
Ma quel che è accaduto ai piani alti della società inizia ad essere materiale per una serie televisiva: da febbraio circa una dozzina di top manager hanno lasciato il gruppo e Gupta non è che l’ultima spina di una lunga sequela che ormai sta graffiando l’immagine del gigante americano dei guidatori fai-da-te. E’ ancora fresca la notizia del licenziamento di Anthony Levandowski, uno dei top manager del progetto per lo sviluppo di vetture senza conducente, nel tentativo di gettare acqua sul fuoco nella causa con Alphabet, la holding a cui fa capo Google, che accusa l’ingegnere di avere sottratto segreti industriali.
Come ricordava soltanto ieri il Wall Street Journal, Levandowski in passato lavorava per Google, nella divisione per lo sviluppo di vetture autonome, Waymo, scorporata da Alphabet a dicembre 2016. Avrebbe usato la sua buonuscita per fondare una startup, Otto, rilevata da Uber nove mesi fa per 680 milioni di dollari. Ma Uber ha fatto sapere di avere licenziato Levandowski perché non ha rispettato le scadenze fissate dal tribunale per la consegna di documenti collegati alla causa, che vede appunto Uber e Levandowski accusati di avere rubato segreti industriali. Uber, che ha dichiarato la propria estraneità ai fatti, sta cercando di prendere le distanze dal manager.
E se si riavvolge ancora un po’ il nastro della storia recente della startup californiana, si trovano altri casi di pezzi da novanta in fuga. Il presidente Jeff Jones, ex capo del marketing di Target, dopo solo sei mesi in Uber ha lasciato il posto con polemica per “valori incompatibili” con i suoi. Pochi mesi fa era stato il Financial Times a raccontare di un esodo senza precedenti da Uber: dipendenti e manager starebbero – in misura sempre maggiore – rinunciando ai benefit comprese le stock options – per cercare altri posti di lavoro nell’area di San Francisco. Lo stesso ceo Travis Kalanick ha passato un brutto momento, nel quale è stato molto vicino all’uscita, dopo la disputa (filmata e rilanciata sui social network) mentre discute animatamente con un suo “Uber autista”, arrabbiato per i pochi proventi girati dalla società.
Oltre al problema del personale, Uber ha dovuto una serie di crisi di immagine: l’hashtag #deleteuber è andato fortissimo su Twitter recentemente, quando gli utenti hanno rimosso l’app protestando per il legame della società con il presidente Trump. Kalanick in quell’occasione ha dovuto lasciare il gruppo di consiglieri agli affari economici di Trump.
La Repubblica