di Cesare Lanza
Lo snob che amava il calcio
<Non è sport per signorine>
Regista, scrittore e poeta, inventò il termine «Palazzo» contro la casta della politica
Espulso dal Pci per omosessualità, si schierò a fianco dei poliziotti negli anni di piombo
Avevo conosciuto Pier Paolo Pasolini più di 50 anni fa. Lo avevo intervistato. Come spesso mi succede, il ricordo è legato al primo giornale che mi diede un regolare contratto professionale, il Corriere dello Sport. Il direttore era Antonio Ghirelli, per me un secondo padre: nel giornale sportivo aveva inserito una pagina dal titolo «Forza ragazzi», dedicata al pubblico giovanile, ma non incentrata su notiziari sportivi, bensì su altri interessi, scuola e università, svaghi, argomenti culturali e sociali, e quant’altro potesse attrarre lettori dai 15 ai 20 anni. Ghirelli mi affidò la cura di quella pagina e mi incaricò di intervistare alcuni protagonisti di quegli anni, estranei allo sport. Il primo fu Pasolini. Andai a casa sua con l’illusoria determinazione di indurlo a rispondere alle mie domande. Ma la sua personalità, ovviamente, soverchiava la mia. Era il 1965, PPP era già diventato famoso con Ragazzi di vita e Una vita violenta, nonché come regista di Accattone. E invece di rispondere alle domande che avevo umilmente preparato, si scagliò subito, aggressivamente, sull’informazione fornita dai giornalisti sportivi. Vista la foga, voleva esprimere qualcosa che probabilmente covava da tempo. Devo dire che per molti aspetti ero d’accordo con lo scrittore, affascinato dalla sua inflessibile critica alla retorica, all’esagerazione di titoli e slogan, all’assenza di approfondimenti; nonché alla rinuncia, all’epoca dogmatica ma anche oggi imperante, a occuparsi di vicende politiche e sociali («Forza ragazzi» era stata ideata proprio per colmare questa lacuna). Avevo anch’io, fin da allora, il mio caratteraccio e così con Pasolini ci fu uno scambio polemico quando gli dissi che il giornalismo sportivo aveva un merito essenziale, quello della chiarezza del linguaggio e della qualità della sintesi. Sostenevo (e sostengo) che giornalisti come Gianni Brera, Sergio Zavoli, Gino Palumbo, Gianni Clerici, Maurizio Barendson e tanti altri fossero preferibili a chi si occupava di cronaca nera e politica. Ero innervosito dal suo sorriso ironico, ma capii che viaggiava alto, comunque molti scalini al di sopra delle mie acerbe opinioni, quando mi disse che l’unico merito che poteva riconoscere al giornalismo sportivo, così come alla tv, da lui ancora più detestata, era quello di aver recuperato molti italiani da una condizione di semi analfabetismo. A farla corta, l’intervista era diventata una sorta di invettiva verso il giornalismo sportivo.
Tornai in redazione ed ebbi una lunga discussione col direttore Ghirelli. Sostenevo le buone ragioni di Pasolini, Antonio replicava che non poteva pubblicare, sul quotidiano sportivo che dirigeva, una drastica requisitoria, verso il «nostro» giornalismo, senza repliche e obiezioni. E così l’intervista fu pubblicata, accompagnata però da una puntigliosa nota di Ghirelli che prendeva le distanze. Nei miei ricordi, quell’episodio resta importante per un verso come la mia prima ribellione ai sacri poteri di direttori ed editori; per un altro, perché per la prima volta mi trovai di fronte alla schiettezza, alla «verità» analitica di un personaggio autorevole, problematico e di ostico, imprevisto temperamento. In anni successivi incontrai Pasolini in occasioni pubbliche. Ma soprattutto mi trovai di fronte a lui in situazioni curiose, come avversario, in partite di calcio. Lo scrittore amava il football e lo praticava con passione, un sentimento e un’attitudine che rappresentano in lui connotati costanti riconoscibili, nelle più diverse manifestazioni della sua vita. In campo era combattivo, un lottatore, a centrocampo come me. In particolare ricordo un match a Genova, allo stadio di Marassi, niente meno. Erano partite tra formazioni di giornalisti e protagonisti del mondo dello spettacolo. Tra di noi svettavano il radiocronista Sandro Ciotti; tra gli avversari, per impegno e cattiveria ricordo Raimondo Vianello e, appunto, Pasolini. Quel giorno a Genova pioveva e soffiava la tramontana: da qualche parte conservo una fotografia in cui Pasolini e io saltiamo fianco a fianco per colpire il pallone di testa. All’epoca ero un capellone, categoria invisa a Pier Paolo; e la mia chioma svolazzava sotto la pioggia. Dopo uno scontro, rialzandoci dal fango, Pasolini borbottò di fronte alle mie scuse: «Ma quali scuse, tue o mie. Questo è il calcio come lo vorremmo noi dilettanti, non quello delle signorine nel campionato di serie A». Quasi una postilla all’intervista di anni prima. Com’era in quegli anni il Pasolini protagonista, sempre molto discusso, della vita italiana? Lo ricordo come un uomo riservato, di poche parole, forse non altezzoso, ma per niente affabile. Snob! Mi appariva deciso, disponibile a concedersi solo a quelli che potessero confrontarsi col suo pensiero. Lo si poteva incontrare casualmente in trattorie rigorosamente frequentate da intellettuali, o da Rosati, in compagnia di Renato Guttuso e Federico Fellini e dei suoi amici abituali, Alberto Moravia ed Elsa Morante. Con loro due era andato in India e in Kenya, in Sudan e Ghana e Nigeria, in Guinea, in Israele e Giordania: spesso con motivazioni legate al cinema. Perché era diventato famoso anche nel cinema. All’epoca si parlava di lui per il Trittico della vita: Il Decameron, I racconti di Canterbury, Il fiore delle mille e una notte. Era stato amico di Italo Calvino, con il quale aveva poi litigato per banali incomprensioni; era stato difeso da Giuseppe Ungaretti per una fastidiosa vicenda giudiziaria; aveva pubblicato Le ceneri di Gramsci ed era stato espulso dal Partito comunista non tanto per il contrasto, pur pesante, di motivi ideologici, ma per la sua – non accettata, non tollerata – identità omosessuale. La sua omosessualità era certa, ma non oggetto di clamore e scandali, almeno fino al momento della sua morte: Pier Paolo la viveva con dignità e probabile, ma non dichiarata, sofferenza. I più informati si scambiavano battute su una vicenda chiacchierata. Maria Callas, la divina cantante, si era innamorata di lui; soprattutto si era impegnata a recuperarlo all’eterosessualità. Ma non vi riuscì. A quel che si sa, non ci furono rapporti carnali. Pasolini era attratto, affascinato, innamorato idealmente e romanticamente. Le dedicò poesie, era con lei devoto, gentile. Molti testimoni li sorpresero a baciarsi, abbracciati e incuranti di essere osservati. Niente di più. Per la Callas fu delusione, frustrazione, tormento: mai nella sua vita fu felice in amore. Per Pasolini fu un sentimento forte, vissuto con la solita passione, ma anche con bonaria autoironia: un rapporto mantenuto entro confini non violabili. Negli scambi epistolari, la Callas si firmava «Maria la fanciullina» e lui le scriveva: «Tu sei come una pietra preziosa».
L’incontro tra i due era avvenuto sul set del film Medea. Piera degli Esposti, bravissima attrice, doveva sobbarcarsi il ruolo di controfigura della Callas perché Pasolini non voleva che Maria si affaticasse. Ricorda che un giorno scoppiò un incendio e Pasolini irruppe sul set gridando: «Maria!». «Gli interessava solo lei, tutti noi potevamo essere morti…». Per di più, all’epoca, Pier Paolo era tormentato dalla passione per Ninetto Davoli, il vero e prepotente amore della sua vita. Quando Ninetto lo lasciò, PPP scrisse a Paolo Volponi: «Sono quasi pazzo di dolore, dopo 9 anni non c’è più…». Ornella Vanoni disse che qualche tentazione eterosessuale, forse Pasolini l’aveva: «Una volta mi osservava da dietro e commentò: “Ecco un culo femminile che riesce a darmi un brivido…”. Lo avevo alto, attaccato alle scapole ! ». A proposito di amore, riservatezza, volgarità dell’esibizionismo, ricordo un bizzarro intervento, poco conosciuto, di Pasolini: attaccò Brigitte Bardot e Gunter Sachs perché si tenevano mano nella mano! Esecrabile consumismo, neoromanticismo: «Tenendosi per mano vanno poi dove? Alla Rinascente, all’Upim». La mia ammirazione per Pasolini è legata in gran parte a ciò che scrisse sul Corriere della Sera. Piero Ottone, scomparso di recente, all’epoca direttore in via Solferino, disse: «Sarò ricordato come quello che ha dato spazio alle previsioni meteorologiche, ha licenziato Indro Montanelli, ha pubblicato Pasolini in prima pagina». Il meteo era un’intelligente e costante fissazione di Piero. Il caso Montanelli e il caso Pasolini restano invece nella storia del giornalismo. L’avvento di Pier Paolo non è comunque dovuto a Ottone, che tuttavia lo avallò, ma al suo vicedirettore Gaspare Barbiellini Amidei. Ottone, fidandosi di lui, neanche lesse il primo articolo, nel gennaio 1973, pubblicato in seconda pagina, sulla guerra in Vietnam. C’è un retroscena: un anno prima Pasolini aveva indirizzato a Ottone una tremenda lettera in cui lo definiva «una laida puttana che doveva vergognarsi per quel che faceva scrivere ai suoi disonesti redattori». E tuttavia Ottone – snob, sicuro di sé e di mente aperta – autorizzò la collaborazione. Mi sono rimasti in cuore due interventi, più di tutti gli altri. Quello sulle lucciole sparite nell’ambiente e poi paragonate metaforicamente alla decadenza della Democrazia cristiana. Ci fu una dura polemica con Giulio Andreotti, ma anni dopo il politico si scusò. E soprattutto la coinvolgente arringa con cui Pasolini attaccò gli studenti, che contestavano e aggredivano i poliziotti a Roma, a Valle Giulia. In troppi avevamo la mente ottenebrata da pregiudizi, Pasolini sapeva guardare la realtà senza essere influenzato da niente. E perciò mi sembra corretto dare la mia opinione sulla complessità del suo ingegno. Eccola: poeta interessante e di ispirazione discontinua, romanziere appena discreto e poco avvincente; regista originale e molto illuminato. Ma come pensatore, fu straordinario: lo affianco a Leonardo Sciascia (quanto bisogno ci sarebbe, di tutti e due, nello scempio di oggi). Prezioso, acuto, non condizionabile. Inesorabile. Pensate solo all’invenzione del Palazzo, come definizione della Casta e del suo protervo potere… Non scrivo nulla della sua morte, che risale al 2 novembre 1975, a Ostia, in un campo paludoso di via dell’Idroscalo. Non entro mai in vicende giudiziarie di cui non conosco le carte. Il tribunale ha stabilito che autore dell’assassinio fu Giuseppe Pelosi. Oriana Fallaci e altri furono, e molti ancora sono, convinti che si trattò di un omicidio politico. È un’ipotesi verosimile, come quella sancita dalla legge – che fu un delitto a sfondo sessuale. E non ho elementi concreti per apportare novità.
di Cesare Lanza, LaVerità