La società bolognese rileva la il 100% della rete distributiva australiana da Luxury retail group, ma i due ex soci restano in Cda. Intanto, l’ingresso in Borsa sembra slittare al 2018. I conti crescono a doppia cifra e sarà possibile fare una quotazione migliore. L’interesse degli investitori
Diciamo che «quando il mercato sarà interessante e gli azionisti lo riterranno opportuno, annunceremo la quotazione — risponde cauto Alberto Camerlengo —. Intanto, andiamo avanti con il nostro lavoro. La società è trasparente, è governata ed è strutturata per essere ben gestita».
Insomma, tutto è pronto perché Furla approdi in Borsa come è nei progetti degli azionisti: la famiglia che fa capo a Giovanna Furlanetto, che ha la maggioranza del capitale; la famiglia degli eredi di Carlo Furlanetto; e il partner finanziario, la Tamburi investments partners. Ma, a quel che si comprende vicino ai soci, non è ancora arrivato il tempo per entrare sul mercato. I numeri stanno dando soddisfazioni, il gruppo sta consolidandosi (crescita a doppia cifra anche nel primo trimestre, con aprile sulla stessa linea) e a Bologna si è sempre preferito fare un passo per volta.
Passaggi
Gli ultimi anni sono stati intensi. Prima è stato il tempo degli accordi in famiglia e del passaggio delle consegne tra Giovanna Furlanetto e il figlio Giuseppe Costato. Poi della decisione, unanime dei due rami familiari, di farsi accompagnare dalla Tip di Giovanni Tamburi e Alessandra Gritti. Infine, della scelta del nuovo amministratore delegato in Alberto Camerlengo, che ha rilevato le consegne da Eraldo Poletto andato a guidare la Salvatore Ferragamo. Passaggi che richiedono di essere assimilati ed è per questo che, pur se nessuna decisione risulti ancora presa, la quotazione sarà più facilmente tema del 2018 che non del 2017 com’era stato inizialmente previsto. Su questa Ipo c’è l’attenzione di tutti i bankers, essendo una delle poche in calendario e soprattutto trattandosi di società solida.
Intanto, non si sta fermi. Furla ha, infatti, appena rilevato il 100% della rete distributiva australiana da Luxury retail group per avere il controllo diretto su un mercato che si sta rivelando particolarmente felice. «Abbiamo già 15 negozi che sono stati sviluppati nel giro di meno di tre anni e che nel 2016 hanno registrato una crescita del 95% — dice Camerlengo —. Per fare un investimento dall’altra parte del mondo avevamo bisogno di partner molto radicati sul territorio e con Theo Poulakis e Nelson Mair di Luxury retail l’intesa è stata immediata, tanto che entrambi sono rimasti nel consiglio di amministrazione della nuova Furla Australia. Ma è fondamentale, non appena un mercato si sviluppa, intervenire direttamente per gestire l’immagine del marchio». All’inizio dell’anno, inoltre, è stata creata una joint venture con il distributore portoghese. «Per noi è essenziale non solo per il Portogallo, ma come testa di ponte per tutta la parte africana — dice l’amministratore delegato —. Il nostro partner ha, infatti, multimarca anche in Africa dove sta iniziando a introdurre il brand Furla».
Numeri
Se il marchio entra in territori sempre nuovi, porta i territori anche in Italia. «Nelle nostre sedi di Bologna e di Milano abbiamo 14 nazionalità diverse, libanesi, americani, cinesi, tedeschi… Richiede uno sforzo notevole, perché ogni volta che incontri una cultura diversa ti devi mettere in discussione, ma lo consideriamo un valore da coltivare e che stia dando risultati lo si vede dai numeri. La nostra, d’altra parte, è un’azienda che realizza l’80% delle sue vendite fuori dall’Italia».
Nel 2016 il gruppo bolognese ha chiuso l’esercizio con un fatturato di 422 milioni di euro (+24,5% a cambi correnti, +22% a cambi costanti, +9% a parità di perimetro).
L’internazionalità della società ha portato anche a introdurre un programma di welfare differenziato per nazione. «Lo studio è durato quasi un anno, abbiamo sentito i responsabili delle risorse umane di tutti i Paesi per capire cosa interessasse ai dipendenti». Così la richiesta in Italia di un aiuto su visite mediche, asili e formazione culturale non era la stessa di Hong Kong dove il punto centrale sono le poche ferie. Il risultato è stato un buono di 500 euro l’anno per l’Italia e un meccanismo per guadagnare giorni di ferie aggiuntivi ai 17 previsti per Hong Kong.
Maria Silvia Sacchi, il Corriere della Sera