Il ceo di Deutsche Bank Italia: il nuovo risparmio vale 500 miliardi di euro
«È arrivato il tempo delle scelte». La prima tornata di bilanci ha restituito la foto di un sistema bancario che se da un lato è riuscito a rimettere in ordine i conti, dall’altro fatica a ritrovare redditività. I problemi non sono solo gli Npl. Il modo di fare banca si sta trasformando e dal suo punto di osservazione Flavio Valeri vede con quale velocità sono cambiati gli attori del mercato, i competitor e lo stesso contesto in cui l’industria finanziaria si sta sviluppando. Per questo l’amministratore delegato di Deutsche Bank in Italia è convinto che le scelte non possano più essere rimandate.
Perché è il momento di scegliere?
«Il mercato sta cambiando a grande velocità e in particolare tre forze stanno determinando il cambiamento: l’arrivo delle Fintech con nuovi modelli di business, il basso livello dei tassi che comprime la redditività e una nuova cornice regolamentare che impone scelte di modelli di business e di allocazione del capitale».
E le banche tradizionali cosa devono fare?
«Credo che la risposta debba passare per una strategia basata su eccellenti fabbriche prodotto e su una forte competenza digitale. Una grande evoluzione rispetto alla situazione attuale».
Quali aree vanno presidiate?
«Le fabbriche prodotto principali sono 5: raccolta e la gestione del risparmio, credito al consumo, transaction ban-king, banca d’affari e prodotti per famiglie e piccole e medie imprese. È in questa leadership di prodotto che le banche devono trovare il loro vantaggio competitivo».
Deutsche Bank in che situazione è?
«Db ha tutte le fabbriche prodotto. A livello globale siamo leader nella banca d’affari, nel transaction banking e nell’asset management. In Italia abbiamo quote di mercato significative nel credito al consumo con Db Easy e nella raccolta del risparmio con Finanza e Futuro. A livello centrale, inoltre, Db ha recentemente aperto a Francoforte una digital factory che collabora con il Mit e 4 laboratori digitali a Londra, Berlino, Silicon Valley e Dublino in partnership con Microsoft, Ibm, Hcl per lo sviluppo di prodotti finanziari digitalizzati. Il gruppo ha un programma di investimenti in tecnologia digitale di oltre 1 miliardo di euro. La nostra scelta l’abbiamo fatta da tempo».
E le banche italiane in che situazione sono?
«Ogni banca ha caratteristiche diverse e solo poche hanno tutte e 5 le fabbriche. Devono scegliere dove posizionarsi, tenendo conto che alcuni settori sono impegnativi da penetrare se non c’è già un minimo presidio di base. Prendiamo l’asset management: è la fabbrica per eccellenza ma per essere uno dei big mondiali, con un’offerta di investimento completa tra le principali asset classes, la soglia generalmente considerata adeguata è 1 trilione di euro. Un valore giustificato dagli alti livelli di investimento richiesti in capitale umano e tecnologico. Sono 10-15 le società al mondo in questa situazione e sono loro che per quel che riguarda il mercato italiano beneficeranno del “secular shift” in atto: i risparmiatori retail si stanno spostando dall’investimento classico in Btp e Bond bancari verso il risparmio gestito. È un trend secolare che vale 500 miliardi di euro».
Nel credito al consumo il business sembra promettente.
«È la fabbrica prodotto che sta crescendo di più anche perché l’acquisto a rate non viene più percepito come negativo. Ma è una fabbrica in cui servono forti investimenti in algoritmi matematici e tecnologia. Non si può partire oggi da zero».
Nel retail, tradizionale presidio delle banche, la concorrenza delle Fintech già si sente?
«La concorrenza di Facebook, Google e delle Fintech sta cambiando il modo di fare banca. Soprattutto nel settore dei pagamenti, del personal finance con i roboadvisor e dei prestiti P2P. Questo avrà un grande impatto nei processi operativi interni. È inevitabile una crescita dimensionale per sostenere questi forti investimenti digitali e quindi prevedo un aumento dell’M&A tra gli istituti bancari. Ciò detto, nei prossimi 5-10 anni, finché il numero dei millennials non supererà i baby boomers, il modello sarà inevitabilmente “ibrido” con sportelli tradizionali al fianco di un’offerta digitale».
Nelle sfide di cui ha parlato le banche italiane partono con una zavorra: gli Npl. L’Eba ha proposto una bad bank europea. È d’accordo?
«Partiamo dai numeri: il valore degli Npl lordi in Italia è di circa 200 miliardi, che equivalgono a 85 miliardi netti, su cui ci sono addizionali garanzie reali e personali che coprono oltre il 100% del valore. Ciò detto il mercato sembra richiedere un livello di copertura per gli Npl del 70-75% e degli Utp (Unlikely To Pay) del 35/40%, livelli più alti rispetto all’attuale media in Italia. È quindi positivo vedere che i recenti provvedimenti normativi per la velocizzazione del recupero stiano facendo effetto e si calcola che abbiano avuto un impatto di quasi 1 anno, equivalente a circa il 4 o 5% sui prezzi riscontrabili sul mercato. Le proposte di Eba e di Abi sono degne di nota, perché entrambe mirano a ridurre lo stock».
Come sarà tra cinque anni una banca di successo in Italia?
«Salvo posizionamenti di nicchia, penso a una banca che abbia almeno 3 o 4 miliardi di euro di ricavi nel business tradizionale, un rapporto tra costi e ricavi sotto il 50% e un ritorno sull’equity del 10%, con una forte competenza nel digitale e fabbriche prodotto di eccellenza. La sfida è molto avvincente e dalla posizione di Deutsche Bank vale assolutamente la pena continuare a investire in Italia».
Federico de Rosa, il Corriere della Sera