I maestri «Da Ottone ho imparato il mestiere da Benedetti ad evitare ogni luogo comune»
Fabrizio Coscia, il Mattino
Il primo articolo lo scrisse nel 1956, sul «Corriere Mercantile» di Genova. Argomento? Una sdegnata denuncia dei fatti d’Ungheria. Età? Quattordici anni. Cesare Lanza ha avuto, come lui stesso dice, la fortuna e la sventura di essere un enfant prodige: esordio precocissimo, è stato direttore del «Secolo XIX» a soli trentaquattro anni, e poi, oltre ad aver svolto un ruolo importante di talent scout di giornalisti come Massimo Donelli, Ferruccio De Bortoli, Gian Antonio Stella, Gigi Moncalvo e Edoardo Raspelli, si è cimentato come autore televisivo (Festival di Sanremo, «Domenica in», «Buona domenica»), come scrittore, drammaturgo, regista, opinionista. «Sono un uomo eclettico – dice di sé – quelli che primeggiano in una sola cosa ci considerano, noi eclettici, degli imbecilli, ma tant’è, ci piace fare più cose». Da quel lontano 1956 a oggi sono passati sessant’anni di giornalismo, che Lanza festeggerà giovedì 15 a Roma, a Palazzo Altieri, in occasione della presentazione del suo ultimo libro Due o tre cose che so sulle assicurazioni (L’attimo fuggente editore).
Lanza, come andò con il primo articolo? «Ero al ginnasio, nel liceo Andrea Doria di Genova, e spinto dall’emozione per le scene che avevo visto al telegiornale sull’invasione dell’Ungheria da parte dei carri armati sovietici, scrissi una lettera al “Corriere Mercantile”. Non mi aspettavo che fosse pubblicata come un articolo. Da allora quel giornale mi assegnò qualche pezzo di cronaca da scrivere, poi iniziai a collaborare anche con un quotidiano cattolico, il “Nuovo Cittadino“. Ma quello che io considero il vero esordio fu con “Tuttosport“, diretto da Antonio Ghirelli, il quale rispose a una mia lettera durissima e piena di critiche, proponendomi con mia grande sorpresa di scrivere per il suo giornale. Avevo diciassette anni. Poi, finalmente, nel ’65, lo stesso Ghirelli, che è stato un secondo padre per me, mi assunse a Roma, al “Corriere dello Sport“, dove intanto era diventato direttore». Chi sono stati i suoi maestri? «Oltre a Ghirelli, Piero Ottone. Ero il più giovane, al “Secolo XIX”, quando mi scelse come suo caporedattore. Alcuni sostengono che mi scelse proprio per la mia giovane età, per contrappormi alla vecchia fronda che lo contestava. Da loro due ho imparato il mestiere. Così come da Arrigo Benedetti, di cui ricordo le terribili sfuriate quando trovava nei miei articoli qualche luogo comune, che lui odiava, del tipo: “a mio parere”, o “a onor del vero”».
Il suo scoop più importate? «Lo feci con un’intervista a Indro Montanelli per “Il Mondo“. Montanelli contestò la linea del “Corriere della sera“, a suo parere troppo di sinistra, definendo “Giuda”, la proprietaria del giornale Giulia Maria Crespi, e dichiarò di aver intenzione di fondare un giornale che fosse vicino alla grande borghesia lombarda. Ottone allora lo licenziò e Montanelli fondò “Il Giornale“, che nelle intenzioni doveva essere il giornale della borghesia lombarda, con funzioni “anti-Corriere”, ma divenne invece un quotidiano di opinione di rilievo nazionale».
Il suo secondo amore è stato la tv. Rifarebbe tutti i programmi che ha fatto? «Sinceramente mi pento di molte cose. Mi sono chiesto, ad esempio, se è valsa la pena sacrificare undici anni della mia vita ai pomeriggi domenicali. Invece vado molto fiero dei miei Sanremo, dove ho portato personaggi come Mike Tyson o Rania di Giordania».
Uno dei suoi temi più ricorrenti, come opinionista, è la meritocrazia. «Più che un tema ricorrente è una mia fissazione. Ho fondato anche un sito che si chiama Socrate, dedicato a un simbolo eccezionale del merito.
Quest’uomo straordinario ha rifiutato la fuga accettando la condanna a morte perché comminatagli dallo Stato e dunque degna di rispetto. Ma ve lo immaginate, oggi, un Berlusconi che rifiuti di salvarsi da una pena di morte? O anche un Renzi?».
Cosa si aspetta dal futuro politico immediato dell’Italia? «Che si faccia finalmente questa legge elettorale e si vada a votare. Non è possibile che si debba aspettare ancora fino a gennaio il parere della Consulta. Ecco, questo è un altro dei mali italiani: il rinvio. Siamo un popolo di tattici, di attendisti, di mediatori».
Come mai un libro sulle assicurazioni? «Perché mi piace andare controcorrente. Tutti parlano male delle assicurazioni, e così ho intervistato una dozzina di esperti economisti per dimostrare invece quanto l’assicurazione abbia un ruolo centrale nell’economia del Paese e un’importanza sociale. Mi viene in mente Franz Kafka, che svolgeva con grande scrupolo e abnegazione il suo lavoro di assicuratore. Ecco, se tutti facessero come lui, se ciascuno svolgesse bene il proprio lavoro, senza invidiare o voler fare quello degli altri, l’Italia sarebbe un Paese migliore».