Ecco perché la Suprema corte ha assolto Amadori per l’articolo di Panorama su Celentano-Mori. La cronaca è sempre soggettiva. I limiti? Riportare fatti veri
Un giornalista è libero di scrivere criticamente su un personaggio famoso, che sia della tv o meno poco importa, e non va censurato se il suo articolo poggia su un ragionamento soggettivo, basato su una selezione di fatti veri che riguardano quel volto noto. Del resto, la critica è sempre soggettiva e condizionata dalla sensibilità dell’autore.
Così si è espressa la Corte di Cassazione il 20 luglio scorso, rigettando il ricorso di Adriano Celentano e Claudia Mori nei confronti di Giacomo Amadori, giornalista nel 2005 del settimanale Panorama che aveva firmato sul numero del 24 febbraio dello stesso anno un articolo dal titolo Ritratto di famiglia in un inferno, raccontando gli aspetti meno idilliaci della vita e della carriera del Molleggiato. Quella dei Supremi giudici è una sentenza importante per la stampa, spiega a ItaliaOggi Stefano Toniolo, avvocato responsabile della divisione penale dello Studio legale associato Martinez & Novebaci, che ha seguito la controversia dalla fase di appello fino alla sentenza definitiva: «è la prima volta che una sentenza esprime in modo così netto la libertà del giornalista, legata al diritto di critica, di poter selezionare eventi della sfera personale di un individuo e valutarli in modo critico».
Certo, ci sono voluti undici anni per arrivare a questo punto fermo della giurisprudenza ma d’ora in poi, almeno, non verrà giudicato diffamatorio un articolo solo perché il suo contenuto non corrisponde alla percezione che il diretto interessato ha di sé, della sua famiglia o della sua vita in generale.
Anche e soprattutto nel caso di Celentano (ai tempi in onda con Rockpolitik su Raiuno), conferma Toniolo, «che aveva e ha impostato la sua immagine pubblica non solo come artista ma anche come predicatore e guru tv. E quindi è stato riconosciuto, già in sede di appello, un interesse pubblico alla notizia intesa come comparazione tra fatti veri, che hanno caratterizzato la vita del personaggio, e i modelli eletti come giusti nelle sue esternazioni televisive. A tutela del diretto interessato, per i giudici della Cassazione, rimangono comunque due paletti. Il primo è che i fatti descritti siano veri, non parziali né arricchiti con particolari di fantasia. Altrimenti detto, il significato degli eventi non dev’essere stravolto. Il secondo paletto impedisce invece, passando dal particolare al generale nella descrizione del fatto, che il giornalista gli attribuisca un significato più ampio per mistificare e denigrare».
Assunti consolidati oggi ma per nulla scontati prima dello scorso luglio, se in primo grado (correva l’anno 2008 e precisamente il 19 novembre) il giudice ha ritenuto fondate la denuncia e la querela di Celentano e della moglie Claudia Mori (presentata subito dopo la pubblicazione dell’articolo). Secondo il tribunale di primo grado di Milano, i fatti riportati nell’articolo erano anche veritieri, dal rapporto difficile coi figli ai rapporti tumultuosi con la Rai e vari amici di famiglia, ma Amadori ha utilizzato un linguaggio offensivo violando la continenza formale nel momento in cui ha scelto, per esempio, il verbo «fuggire» per descrivere l’uscita di casa dei figli. Quasi a lasciar sottintendere che questi ultimi siano stati indotti a lasciare la famiglia. In aggiunta, a giudizio del tribunale, sono stati riportati alcuni fatti privi di interesse pubblico che Amadori ha raccolto per dare una visione tendenziosa della famiglia Celentano e, di conseguenza, per indurre il pubblico tv a diffidare delle dichiarazioni pubbliche del «ragazzo della via Gluck». Senza dimenticare, sempre secondo il giudice di primo grado, che dall’articolo non emerge nessun dissenso verso la condotta di Celentano e quindi il giornalista ha esercitato il suo diritto di cronaca (non quello di critica) senza riportare, però, tutti gli eventi necessari a dare un quadro completo ed equilibrato della vita familiare del «Clan». A maggior ragione, perciò, il risultato è stato dipingere una vita professionale e personale piena di fallimenti. Così impostando le motivazioni della sentenza, Amadori è stato condannato nel 2008 al pagamento di una multa di 800 euro, l’allora direttore di Panorama Pietro Calabrese a un’altra sanzione pecuniaria di 600 euro per omesso controllo. Alla famiglia Celentano andava un risarcimento complessivo di 40 mila euro (20 mila per il Molleggiato, 20 mila a Claudia Mori), a carico di Mondadori che pubblica tutt’ora il settimanale.
Bisogna aspettare altri sei anni e mezzo circa (il 20 maggio 2015) perché, in sede di appello, il tribunale ribalti la sentenza di primo grado confermando che i fatti riportati corrispondono al vero e aggiungendo che c’è stato rispetto formale nel linguaggio usato nei confronti dell’ex Bisbetico domato e ancora che c’è sempre una visione dell’autore e una sua ricostruzione dei fatti dietro un articolo: quindi, il diritto di cronaca presuppone in ogni caso l’esercizio del diritto di critica. Non solo, l’utilità sociale della notizia deriva dalla notorietà del personaggio (Celentano) e dal ruolo di opinionista assunto sul piccolo schermo. Infatti, «nell’articolo di Amadori c’è una larvata critica sociale e di costume, proprio considerando che l’artista si stava presentando al grande pubblico come predicatore», sottolinea Toniolo. «In aggiunta, i fatti riportati erano già stati resi noti con interviste e dichiarazioni rilasciate, per esempio, dai figli della coppia Celentano-Mori. E’ vero, c’è sempre da rispettare l’essenzialità della notizia, ossia non riportare elementi slegati dal tema trattato, ma in conclusione non può essere una colpa ascrivibile al giornalista se dall’articolo emerge una difformità tra i modelli presentati dal personaggio famoso e la sua vita reale». Così procedendo, il giudice di appello ha assolto Amadori perché il fatto non costituisce reato, anche se ha continuato a dichiarare diffamatorio il titolo Ritratto di famiglia in un inferno, ascrivibile però al lavoro della redazione (non del singolo autore). Titolo di cui risponde il direttore di una testata anche se, nel caso specifico, Calabrese era deceduto nel settembre del 2010, per cui il tribunale ha dichiarato il non luogo a procedere.
Tra le maglie del sistema giuridico italiano e una denuncia e una querela, l’illecito penale era già caduto in prescrizione ma almeno la sentenza della Cassazione ha fissato un punto sulla libertà della stampa a esercitare il proprio diritto di critica e, nella fattispecie, ha evitato anche il risarcimento da 40 mila euro più le spese legali. Quindi per il prossimo giro di boa giurisprudenziale sulla professione bisognerà aspettare i prossimi undici anni? «In passato questo tipo di processo era più lento», conclude Toniolo. «Adesso i tempi si sono accorciati. Almeno a Milano».
Italia Oggi