Fare del canone Rai una componente della bolletta elettrica? Si tratta di una proposta che più volte, nurse sale negli ultimi anni, è affiorata nel dibattito pubblico, ma che ora sembra prossima a diventare realtà. Lo ha confermato lo stesso Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, il quale ha fatto propria la proposta del sottosegretario allo Sviluppo economico con delega alle telecomunicazioni, Antonello Giacomelli.1 Tale proposta appare però non solo discutibile nei suoi presupposti e di estrema complessità pratica, ma anche tale da rendere il canone stesso – o sue eventuali riformulazioni – meno trasparente e più facilmente soggetto ad aumenti incontrollati.
Il senso della proposta
La ratio della proposta, ufficialmente, risiede nell’elevato tasso di evasione del canone Rai. Secondo la relazione annuale della Corte dei Conti,2 a fronte di un gettito pari a circa 1,7 miliardi, l’effetto dell’evasione è stimato in circa 600 milioni di euro, pari a circa il 26% del canone teoricamente dovuto. Stando a informazioni fornite dall’azienda, il tasso di evasione assume valori preoccupanti in particolare nelle regioni meridionali del paese.3
Secondo i fautori della traslazione del canone in bolletta, sulla base della presunzione che chiunque disponga di un allacciamento alla rete elettrica sia anche in possesso di apparecchi atti a ricevere il segnale radiotelevisivo, si potrebbe in tal modo sconfiggere alla radice il fenomeno dell’evasione. Sempre secondo i sostenitori della riforma, cheap una conseguenza sarebbe quella di pervenire a una riduzione del canone, in quanto la manovra sarebbe finalizzata non già a ricuperare risorse aggiuntive, bensì a garantire l’invarianza di gettito in un contesto di maggiore equità sociale.
In particolare, il Presidente del Consiglio ha fatto riferimento a una riduzione del canone dagli attuali 112 euro l’anno a circa 100 euro l’anno (-10,7%). Se questascelta fosse confermata, assumendo l’azzeramento della morosità, il gettito complessivo annuo del canone aumenterebbe dagli attuali 1,7 miliardi di euro a circa 2 miliardi di euro (+20%). Se, invece, si volesse mantenere l’invarianza di gettito, il canone potrebbe scendere a circa 82 euro (a fronte di un aumento da 93,8 euro nel 2002 a 112 euro nel 2012).
Sebbene, enunciato in questi termini, il provvedimento possa apparire conveniente per i contribuenti onesti, vi sono molte ragioni di scetticismo, come peraltro è stato giustamente sottolineato in precedenza dal presidente dell’Autorità per l’energia, Guido Bortoni. In particolare, esso è contraddittorio rispetto al principio di cost-reflectiveness della bolletta elettrica; implica forti criticità in fase di attuazione; e rischia di diventare un’imposta poco trasparente che quasi certamente subirà incrementi vertiginosi negli anni a venire.
Lotta all’evasione del canone o reperimento di risorse aggiuntive?
Come detto, physician la motivazione che dà il Governo è combattere l’alto tasso di evasione nel pagamento del canone. Tuttavia, se questa solo fosse, dovremmo immaginare che il canone venga a costare ancor meno di quanto annunciato: intorno agli 80 euro, come sopra detto.
Peraltro, in un sistema tributario in cui il fisco sa tutto di noi o può comunque facilmente saperlo semplicemente incrociando le informazioni delle banche dati esistenti, il trasferimento in bolletta non può essere considerato come l’unico strumento esistente per combattere l’evasione.
Accanto quindi a una motivazione ufficiale, in realtà la trasposizione del canone in bolletta avrà anche l’effetto di aumentare la pressione fiscale. Più che «pagare tutti per pagare meno», sarebbe il caso di dire «pagare tutti, anche chi non deve, per riscuotere di più».
Il canone verrebbe infatti caricato anche sulla bolletta di chi non ha il televisore, sulla base di una debole presunzione per cui chiunque disponga di un allacciamento elettrico possegga anche la tv. Avere la luce è condizione necessaria per vedere la tv. Non è però condizione sufficiente. Ci sarà di certo il modo di contestare il possesso del televisore, ma per quale motivo l’utente debba essere sobbarcato di un onere di prova per contestare una presunzione chiaramente fragile è spiegabile solo nelle logiche di un rapporto del tutto sbilanciato tra contribuente e riscossore.
Non solo una presunzione debole, ma anche un onere improprio
Oltre al legame flebile tra corrente elettrica e possesso del televisore, l’altra evidente e banale osservazione che si possa fare in merito alla proposta è che essa implica di inserire all’interno della bolletta un onere improprio, che nulla a che a vedere con la fornitura di energia elettrica. Non vi è infatti alcun plausibile nesso tra la fruizione del servizio elettrico e il supporto al servizio radiotelevisivo pubblico, se non la banale coincidenza per cui la televisione richiede la corrente per accendersi.
Si tratta di una difficoltà di ordine teorico che ha, tuttavia, importanti ricadute pratiche.
Il canone, infatti, ha natura di imposta. Discutibile e discussa natura, ma non è questa la sede per riaprire vecchie ferite del sistema tributario italiano. La bolletta, invece, riflette il prezzo di un servizio, pur gravato di una molteplicità di oneri tariffari. Nel primo caso, il tributo si paga solo per possedere una tv, a prescindere dall’usarla per vedere la Rai. Nel secondo caso, il pagamento è correlato al consumo di un servizio, il quale si trascina appresso una serie di finalità pubbliche (ma in qualche modo correlata al servizio stesso) quali il finanziamento delle fonti rinnovabili, lo smantellamento degli ex siti nucleari, la mutualità nei confronti delle famiglie in condizione di disagio economico e fisico, ecc.
Mischiare due pagamenti di diversa natura in un unico solo vuol dire, nella pratica, fare una gran confusione al consumatore, che difficilmente sarà in grado di leggere e separare distintamente, nella sua bolletta, la componente del canone da quella tariffaria, col rischio sia di pagare anche quanto non dovuto – nel caso in cui, ad esempio, non debba versare il canone – sia di non rendersi conto dell’aumento dell’una o dell’altra componente, mescolate in un’unica lista di voci. Per quanto, infatti, la componente del canone possa essere evidenziata nei documenti di fatturazione, alla fine al consumatore interesserà un solo dato: cioè il prezzo complessivo da corrispondere al suo fornitore.
Questa difficoltà di distinguere le componenti della bolletta è un problema particolarmente rilevante alla luce del fatto che, negli ultimi anni, essa è stata utilizzata impropriamente quale veicolo per una molteplicità di oneri che poco o nulla hanno a che vedere col servizio elettrico stesso.
Questa proliferazione di oneri ha una serie di conseguenze negative: non solo essa è la principale ragione dei continui aumenti del costo dell’elettricità,6 ma determina scarsa trasparenza nella struttura tariffaria e può addirittura sortire effetti anticoncorrenziali, particolarmente paradossali alla luce della piena liberalizzazione dei prezzi retail decisa, proprio dal Governo, attraverso il Ddl Concorrenza (appena approvato in prima lettura dalla Camera).7 Infatti, più la parte contendibile della bolletta – quella relativa al valore della commodity – è “schiacciata” da oneri fiscali e parafiscali, meno il consumatore coglie le differenze di prezzo tra le varie offerte presenti sul mercato e più è disincentivato dall’abbandonare l’incumbent per rivolgersi a fornitori alternativi. Va da sé che questo induce maggiore rigidità della domanda e dunque, a parità di altri elementi, prezzi e margini più elevati per gli operatori dominanti.
Vale la pena sottolineare che già oggi l’Italia è uno tra i paesi europei per i quali il valore della componente energia della bolletta è inferiore rispetto alla parte amministrata del prezzo (imposte, costi di rete e oneri generali, a cui si aggiungerebbe eventualmente il canone Rai).
A questo si aggiunge un elemento non irrilevante relativo all’incremento di costo della bolletta, che – per quanto compensato mediamente dalla scomparsa del canone – potrebbe dare luogo a incomprensioni. Assumendo che l’incremento sia dell’ordine di grandezza stimato (circa 80-100 euro), esso va confrontato con la spesa media delle famiglie italiane per i consumi elettrici: secondo le stime dell’Autorità per l’energia, la spesa annua della famiglia tipo è pari a circa 510 euro. Di conseguenza l’incremento tariffario sarebbe mediamente del 15-20%, ma potenzialmente molto più elevato per le famiglie a bassi consumi.
Tutto ciò contrasta nettamente, peraltro, con lo sforzo di riduzione del numero e dell’entità degli oneri gravanti sulla bolletta elettrica, implementata dal Governo attraverso il pacchetto “taglia bollette”. L’impatto di tale pacchetto è quantificabile in una riduzione dei prezzi di circa 8-10 euro / MWh per le Pmi e 1-2 euro / MWh per la totalità dei consumatori.
Difficoltà di attuazione
Al di là delle questioni di merito, vi sono una serie di ostacoli molto rilevanti all’implementazione della misura. Tali difficoltà riguardano in particolare quattro aspetti.
In primo luogo, l’introduzione del canone Rai in bolletta costringerebbe tutti gli operatori – circa 250 – ad apportare significativi cambiamenti ai relativi software di fatturazione e gestione cliente. Sebbene il Governo abbia garantito nel passato che l’adeguamento sarebbe a costo zero per gli operatori,9 questo implica quanto meno lunghi tempi di attuazione, potenzialmente asimmetrie tra gli operatori, ed elevato rischio di errori.
Peraltro, gli operatori non sono tutti uguali: ce ne sono di piccoli che potrebbero avere oneri non secondari nella predisposizione degli strumenti per adeguare il calcolo della tariffa e la fatturazione, senza considerare i potenziali entranti che, dati gli oneri aggiuntivi, avrebbero difficoltà ulteriori di accesso nel mercato, con buona pace della liberalizzazione del settore e della concorrenza, statica e dinamica.
Inoltre, sostenere che il costo non sarà imputato agli operatori equivale a preannunciare l’introduzione o di un nuovo tributo o di un nuovo onere tariffario finalizzato a socializzare tale gravame. Anche in questa prospettiva non è detto che sia possibile quantificare con precisione i costi, in ogni caso.
Un secondo elemento di complicazione – fonte esso stesso di errori e quindi di contenzioso – deriva dal fatto che gli operatori non dispongono necessariamente di informazioni esaustive e corrette sui propri clienti, in relazione ai requisiti necessari a determinare l’imposizione del canone Rai. Ciò riguarda, tra l’altro, la distinzione tra prime e seconde case e quella tra abitazione di residenza e attività commerciali o professionali. A maggior ragione questi problemi si rivelerebbero di difficile superamento nel caso in cui, come è stato ventilato, il “nuovo canone” tenesse conto anche del reddito.
Un terzo elemento riguarda la morosità: un fenomeno in forte crescita nel settore elettrico anche a causa del clima macroeconomico. La morosità, oltre a costituire in sé e per sé un problema del tutto analogo all’evasione del canone Rai, negli ultimi anni è cresciuta in modo significativo, anche per effetto della crisi economica. La disciplina vigente prevede che il venditore elettrico provveda a versare le componenti fiscali e gli oneri tariffari – quali accise e oneri generali di sistema – anche in relazione ai pagamenti non percepiti. Quindi, o i venditori saranno chiamati a farsi carico degli oneri relativi al canone Rai anche a nome dei morosi (salvo poi ricuperare le somme dovute), oppure l’entità della componente tariffaria “canone Rai” dovrà essere sovradimensionata per tenere conto della morosità stessa. In ogni caso, poiché presumibilmente l’incremento repentino della bolletta dovuto al canone Rai produrrà un aumento della morosità, gli operatori dovranno sobbarcarsi come minimo i costi connessi e i relativi costi di ricupero degli arretrati.
Un quarto e ultimo elemento, non per importanza, riguarda le procedure di ricupero del canone Rai versato da clienti i quali possono avere titolo di non pagarlo, e la distinzione tra questi clienti e quelli tenuti invece a versare tale contributo all’interno dei sistemi informatici dei venditori elettrici. Come già detto, la presunzione per cui chi ha la corrente ha la tv sarebbe, in teoria, tutta da dimostrare. Solo che, nel sistema tributario, in genere spetta al contribuente-suddito l’onere di dimostrare il contrario. Poiché non sarebbe singolare che ci siano utenze elettriche che non servono anche a guardare la tv – può essere il caso di esercizi commerciali, studi professionali, industrie, seconde case o anche prime case di persone che non hanno la tv – occorrerà prevedere un sistema generalizzato di prova contraria. Tuttavia, l’esperienza tributaria insegna che procedure di questo tipo, le quali di per sé costituiscono un indebito onere burocratico a carico dei cittadini, rischiano pure di essere frustranti nella loro lungaggine e complicazione.
Peraltro, non è difficile immaginare che il canone debba essere comunque anticipato, anche da chi sa di non doverlo pagare. Come fare a separarlo da quanto dovuto, a titolo di tariffa per l’elettricità, alle società fornitrici di energia? Ammesso che sia possibile un pagamento separato, andrebbe comunque effettuato per evitare che le società fornitrici di energia si accollino il rischio di un debito erariale non loro.
Non stupirebbe, quindi, che molti cittadini possano rinunciare a contestare il pagamento del canone, laddove non dovuto, pur di non dover affrontare la trafila burocratica, e sempre che – per quanto sopra detto – siano ben consapevoli di quello che stanno pagando quando pagano la bolletta.
Il perimetro dell’operazione
Un ultimo effetto dello spostamento del canone Rai in bolletta è quello della minore trasparenza sia sulla composizione tariffaria, sia sull’entità del canone stesso. In virtù di questa minore trasparenza, eventuali aumenti verrebbero meno percepiti dal contribuente, e sarebbero comunque scarsamente distinguibili dalle normali variazioni della bolletta elettrica (esattamente come oggi il consumatore non distingue gli aumenti dovuti al rincaro dell’energia in quanto commodity e quelli dovuti all’incremento della parte regolata della bolletta).
In particolare, gli aumenti sarebbero possibili sotto tre direttrici differenti: un’estensione del perimetro di applicazione alle seconde case; un’estensione del perimetro di applicazione ad altre tipologie di utenze professionali o commerciali; un aumento dei corrispettivi tariffari. La sensazione è che, se anche nell’immediato la manovra fosse disegnata a invarianza di gettito – come comunque non sembra – la natura del nuovo canone Rai renderebbe i consumatori molto meno sensibili agli aumenti, e pertanto renderebbe eventuali aumenti molto più probabili in virtù del loro ridotto costo politico. Del resto, i consumatori finirebbero per incolpare il loro venditore elettrico, non avendo precisa visibilità sulle singole componenti tariffarie anche a causa della già grande complessità della struttura della bolletta.
Conclusioni
Il canone Rai è un tributo tipico di un mondo che non esiste più. Nato come corrispettivo economico di un servizio essenziale, trasformato poi in una imposta dovuta a prescindere dalla fruizione del servizio e ora destinato, forse, a essere pagato insieme alla luce, esso si giustifica ormai solo come esigenza per lo Stato di fare cassa, e non come corrispettivo per un servizio di informazioni che, oramai, i cittadini hanno garantito in mille altri modi.
In tempi in cui la limitatezza tecnica dell’offerta ha spinto l’Italia verso il monopolio televisivo, il canone doveva infatti rappresentare il corrispettivo per poter vedere i canali di Stato, gli unici esistenti, per poi giustificarsi, caduto il monopolio statale, con l’idea che comunque solo lo Stato potesse e dovesse garantire un’informazione corretta, imparziale, completa e adeguata.
Piuttosto che pensare a come farla pagare a tutti – e probabilmente a più di quelli che la devono – i problemi collegati alla riscossione di un’imposta che ormai si giustifica solo per ragioni di cassa e non per ragioni di servizio dovrebbero indurre il governo ad abolirla e a ripensare, questa volta sì in una prospettiva davvero di riforma, la natura giuridica della Rai, una volta per tutte.
Poiché, tuttavia, non vorremmo che l’abolizione del canone divenisse l’occasione per inventare nuove tasse, se proprio lo si deve mantenere, che almeno si semplifichi la vita dei contribuenti. Per farlo, sarebbe sufficiente inserirlo come tributo da pagare nella dichiarazione dei redditi, come avviene per il canone speciale.
Sarebbe un modo, almeno, per concentrare i pagamenti tributari in un unico momento, evitando omissioni e distrazioni dovute al fatto che il canone, attualmente, si paga a parte, e sarebbe al tempo stesso un modo di rendere chiaro e trasparente al contribuente cosa sta pagando.