Ogni Paese nel Vecchio continente ha scelto una strada diverso, salve ma tutti ha definito con precisione quali sono le motivazioni che possono far interrompere un rapporto di lavoro. L’Italia non ha ancora scelto quale direzione prendere. Il diavolo sta nei dettagli. E in questo caso i dettagli stanno nei decreti attuativi con i quali il governo completerà la riforma del Lavoro dopo il via libera definitivo al Jobs Act, la legge delega appena licenziata dal Senato e adesso all’esame della Camera. Una riforma che ha scatenato l’ira dei sindacati: oggi incrociano le braccia i dipendenti del settore trasporti e della scuola, domani, invece, la Cgil manifesterà al Circo Massimo a Roma.L’obiettivo dichiarato dal governo è il superamento dell’articolo 18 con la fine dell’obbligo di reintegro in caso di licenziamenti per motivi economici lasciando garantita la tutela reale (del posto di lavoro, ndr) solo in caso di licenziamenti discriminatori, mentre resta ancora da definire la norma nel caso di motivazioni disciplinari dovuti al comportamento del lavoratore, che però saranno tipizzati per legge e sanciti dal magistrato. Di certo l’esecutivo vuole ridurre al minimo i margini di discrezionalità della giurisprudenza, ma è evidente – spiegano gli esperti di Adapt, l’associazione fondata da Marco Biagi – che “minore è il grado di precisione normativa, maggiore è il ruolo della contrattazione collettiva e della giurisprudenza nella specificazione delle motivazioni”. E quindi la linea del governo non può essere che quella uscita dalla direzione del Pd, la stessa che ha ribadito più volte il ministro del Lavoro Giuliano Poletti: “L’esecutivo intende modificare il regime del reintegro così come previsto dall’articolo 18, eliminandolo per i licenziamenti economici e sostituendolo con un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità”. La tutela resterà per “i licenziamenti discriminatori e per quelli ingiustificati di natura disciplinare particolarmenti gravi, previa qualificazione specifica della fattispecie”. In questo modo il governo cerca di allineare il Paese al resto d’Europa dove la “motivazione” è il principale elemento discriminante tra un licenziamento legittimo e uno illegittimo. L’unica eccezione è rappresentata dagli Stati Uniti dove il destino del lavoratore è tutto nelle mani del suo titolare. Anche se sul fronte del licenziamento discriminatorio la giurisprudenza sta allineando gli Usa agli standard dei Paesi più garantisti. Tuttavia il reintegro, come anche in Spagna, non è previsto. Da questo punto di vista, quindi, con il Jobs Act, l’Italia si allineerà ai Paesi che prevedono l’obbligo di motivazione per il licenziamento, ma in Europa ogni Paese ha preso una strada diversa.
Gran Bretagna. Oltre Manica licenziare si può, ma anche in questo caso devono sussistere “giustificati motivi” e il datore di lavoro deve agire “ragionevolmente e senza disparità di trattamento”. Altrimenti scatta il diritto al reintegro. In Gran Bretagna la legge affida margini di discrezionalità molto ampi al giudice il quale può reintegrare il lavoratore adibendolo a mansioni diverse da quelle precedenti. Le norme dividono, quindi, i licenziamenti in due fattispecie: quelli collettivi che riguardano almeno venti persone (anche nell’arco di 90 giorni) e quelli individuali. Perché il licenziamento sia valido il datore di lavoro è obbligato a consultare i dipendenti oggetto del provvedimento per spiegargli le motivazioni della decisione e permettere agli stessi di verificare il carattere oggettivo e non discriminatorio del licenziamento. Il lavoratore può comunque impugnare il provvedimento e il giudice disporre il reintegro.
Spagna. La riforma del lavoro iberica è probabilmente la più liberista del Vecchio continente e garantisce ampia libertà d’azione agli imprenditori. Il lavoratore può essere licenziato perfino per le eccessive assenza di lavoro, anche se queste sono giustificate da un malattia: il 20% di giorni a casa in un bimestre (o il 25% in quattro mesi nell’arco di un anno) sono una “giusta causa”. Così come lo è l’inattitudine riconosciuta versa la mansione dopo l’assunzione o l’incapacità di adattarsi alle modifiche tecniche sul lavoro. Tra le cause previste anche i motivi disciplinari definiti come “seri e colpevoli” inadempimenti da parte del lavoratore. Affinché il licenziamento sia legittimo l’azienda deve comunicare al lavoratore le proprie intenzioni per iscritto con un preavviso di almeno 30 giorni e versandogli un’indennità pari a 20 giorni per ogni anno di anzianità, fino a un massimo di 12 mensilità. Il lavoratore può ricorrere al giudice che può riconoscere l’illegittimità del licenziamento: il datore di lavoro puà scegliere tra il reintegro o il pagamento di un’indennizzo pari a 33 giorni di lavoro per ogni anno (fino a un massimo di anzianità). La tutela reale è garantita solo nel caso di mancato rispetto delle procedure.