Quel rissoso, irascibile, inaffondabile direttore del Tg2
I CINQUE ANNI IN RAI DI CLEMENTE MIMUN.
Ha litigato con Scalfaro, Rosy Bindi, Montanelli. Con il sindacato e la redazione. Ma mentre governi e cda passano, lui è sempre lì. Il suo segreto? Bastone, carota e molto ascolto.
di Cesare Lanza – Panorama
Un «unicum» di stabilità. Nel noto reticolato di insidie e perfidie romane, Clemente J. Mimun è candidabile al Guinness dei primati. Erano le 11 del 19 settembre 1994 quando Mimun aprì il telegramma di designazione, firmato Letizia Moratti. Lavorava al Tg5, come vice di Enrico Mentana: mentre ritagliava uno spazio per annunciare anche la nomina che lo riguardava, non avrebbe mai immaginato che la sua prima direzione sarebbe durata cinque anni. E non è finita. È passato indenne attraverso quattro diversi consigli di amministrazione, presieduti da Moratti, Morello, Siciliano e Zaccaria. Ha evitato l’ascia di quattro direttori generali: Billia, Minicucci, Materia e Celli. Nello stesso periodo, al Tg1 si sono avvicendati cinque direttori: Rossella, Fava, Brancoli, Sorgi e Borrelli; altrettanti al Tg3: Brancati, Moretti, Lucia Annunziata, Fava e Chiodi. Quattro soltanto al giornale radio: Angelini, Severi, Sorgi e Ruffini. Sullo sfondo, anche quattro diversi e complicati governi: Berlusconi, Dini, Prodi, D’Alema. Inaffondabile, non abbattibile.
Ma davvero è stato tutto facile e scorrevole? Macché: dietro il gusto mieloso dell’anniversario, non è difficile rintracciare brutti ricordi e piccanti retroscena. Al primo voto di gradimento dei giornalisti si beccò 90 no contro 45 sì. Due settimane dopo, il Talleyrand del Tg2 aveva già recuperato: 69 no, 60 sì, 9 astenuti. Un anno dopo, unanimità: a favore. Di questo passo, insinuano, prima o poi qualcuno proporrà di introdurre il suo nome nel logo: Tg2 Mimun.
Come ha fatto a resistere a tempeste e spifferi della politica, a trabocchetti e agguati di rivali e pretendenti? Spesso chi lo avversava ha commesso l’errore di gongolare frettolosamente, annunciandone la caduta. Alla vigilia del voto che avrebbe sancito la vittoria dell’Ulivo, L’Unità pubblicò una vignetta di Ellekappa: «La campagna elettorale è tutta giocata sull’informazione… Mimun & c. sono bene informati che, se perde il Polo, loro se ne vanno a casa». Subito dopo il voto, Roberto Morrione, ex direttore di Televideo e portavoce dell’Ulivo, reclamava una direzione di tg: «Tagliamo le teste dei polisti». Anche Rosy Bindi, sul Corriere della sera, intimava: «Ora via Mimun». Si sa com’è finita. Con Morrione, che aveva ereditato come vicedirettore, si era scontrato la sera del decreto Biondi: Mimun dovette pretendere che anche il ministro, aggredito da tutti, avesse un po’ di spazio per dire la sua.
Dicono: è in quota al Polo. Risponde: «In Italia c’è libertà di voto, non è obbligatorio scegliere chi vince o avere improvvise conversioni. Non faccio il giornalista del Polo: faccio il giornalista. Il mio impegno politico dura il tempo del voto, pochi secondi. Naturalmente faccio il tifo, ma in privato, non con il tg. Non è ancora un reato, o no?».
Né servo né prepotente, silenzioso, scaltro e rapido nei momenti cruciali. Un esempio? Nel luglio del ’96 era dato per trombato, come succede prima o poi a tutti, in Rai, quando gira il vento. E lui, alla vigilia della riunione del consiglio di amministrazione che doveva fare le nomine, piazzò due mosse. La prima: il Garante per l’editoria, Giuseppe Santaniello, certificò che il Tg2 non aveva «carichi pendenti» per violazioni alla mitica par condicio.
Seconda mossa: una sfacciata sfida al cda, dalle colonne del Corriere della sera. Intervistato, diceva: «Se mi cacciano, dovranno spiegare perché: il Tg2 ha ottenuto ascolti superiori a ogni altra fase della sua storia, ha aumentato la produzione del 30 per cento con 12 giornalisti in meno e in un biennio ha risparmiato una dozzina di miliardi». Risultato: confermato all’unanimità, Mimun apprese la notizia dalle agenzie. Franco Iseppi, allora direttore generale, non lo chiamò: avrebbe preferito spostarlo ai programmi radio. Un altro momentaccio: nei giorni delle dimissioni di Antonio Di Pietro da magistrato, alcuni giornali, fomentati da ambigue dichiarazioni di Oscar Luigi Scalfaro, parlavano di uno scontro tra il Quirinale e la Rai, per colpa del Tg2. Mimun seppe che il presidente si accingeva a ricevere l’Usigrai. Si infuriò: prima sul Colle salgo io, disse, se no mi dimetto e denuncio i retroscena dell’incidente. Riuscì a imporsi, a chiarire la polemica, a sfilarsi.
Legge tutti i giornali cominciando dalle ultime pagine, per non farsi coinvolgere troppo, dice, dalla politica. Quattro riunioni: alle 9.30, 13.30, 16.30, 21. Solo due o tre colazioni di lavoro al mese («Si perde tempo, si può parlare al telefono o al tg»). Durante le riunioni proibisce la lettura dei giornali e invita chi deve parlare al telefonino ad accomodarsi in corridoio. Ci sono «buchi», notizie mancanti? Nessun cazziatone, ma ammonimenti allusivi. Bastone e carota per i giovani, scontri feroci con i notabili. In redazione lo sfottono per il crescente indice di plutocrazia: a Giovanna Cipriani, figlia dell’imprenditore noto a Venezia come a New York, si è affiancata, new entry, Paola Ferrari, moglie di Marco De Benedetti. Godranno di qualche favoritismo?
Ascolti: il Tg2 delle 13 supera il 31 per cento di share e i 5 milioni di telespettatori. Il fiore all’occhiello: il varo del tg serale, spostato dalle 20 alle 20.30, doveva puntare al 14 per cento di share, viaggia quest’anno intorno al 18 (4 milioni di telespettatori). Gli portano via conduttori popolari come Lorenza Foschini, Piero Marrazzo, Mimmo Liguoro, Roberto Amen, Carmen Lasorella? Li sostituisce inventando o rilanciando nuovi volti. Sta per volare verso altri lidi ? sembra ? Guido Barendson, ecco pronte al lancio Maria Concetta Mattei e Maria Grazia Capulli. Dal Tg2 (ma forse non è un merito) è partito anche il «mostro» Michele Cucuzza, da mezzobusto a conduttore vagheggino di prima serata. «Sono per la contaminazione totale» scherza, ma non troppo, Mimun, «vorrei tigiduizzare la Rai».
Difetti noti: testardo, superstizioso, non conosce il perdono. Ha un conto da regolare, dice, con Curzio Maltese: perché era stato da lui definito, più o meno, un incapace, un agitprop di Mediaset, un mafiosetto. Replica: «Non sono un mafiosetto, ma sono ebreo. Non dimentico». Una volta fu accusato di usare il mezzo pubblico per un fatto personale. Indro Montanelli, dirigeva La Voce, aveva pubblicato in prima pagina la sua fotografia e quelle di Enrico Mentana, Carlo Rossella, Paolo Liguori ed Emilio Fede, sullo sfondo di atroci simboli nazisti. Titolo: «Le voci del regime». Turbato, Mimun piombò in studio e replicò in diretta (è rimasto il suo unico editoriale): «Io ero e resto ebreo, Montanelli era e resta fascista». Seguito buonista: Indro riconobbe il suo errore, Clemente l’eccesso, nacque un’amicizia. Altri amici giornalisti: Enrico Mentana, Ferruccio De Bortoli, Pietro Calabrese, Maurizio Costanzo, Vincenzo Mollica, Oliviero Beha, Fabrizio Maffei, Piero Vigorelli. Sogni dichiarati: dirigere il Tg1, Il Messaggero, entrare in politica come amministratore (leggi sindaco).
Fare il Tg2 significa curare nove edizioni al giorno, in totale 2 ore e 45 minuti. In più: i tg delle 7, 8, 9 e 10 del weekend, supplementi, rubriche, motori, libri, cinema, cibo, dossier vari, edizioni straordinarie per grandi eventi, guerre, morti famosi, elezioni. Cinque anni significano 1.825 giorni per 16.425 edizioni ordinarie, tre ore di media al giorno, in totale 5.500 ore prodotte. Insomma, ormai Mimun è un’istituzione, potrebbero solo trasferirlo al posto del cavallo di viale Mazzini.